Chi era Teomondo Scrofalo ovvero elogio del kitsch/1
La gondoletta a luci intermittenti sul sofà di nonna, i santi con sfondi technicolor nella camera di zia Marisa, i nani da giardino nella casa di famiglia: ognuno ha il suo scheletro kitsch nell’armadio.
Rimane però il mistero di come, in questo universo rutilante di “buone cose di pessimo gusto”, per dirla alla Gozzano, qualcosa, di tanto in tanto, riesca ad emergere, fino diventare un’icona, destinata a sopravvivere al mondo che l’ha generata.
Un esempio classico è il “Bevitore” di Teomondo Scrofalo. Teomondo Scrofalo, chi era costui? Se ve lo state chiedendo, negli anni Ottanta del Novecento non eravate nati oppure eravate talmente piccoli da non ricordare il tormentone di un giovanissimo Ezio Greggio.
Nel Drive in, varietà culto di quegli anni, Greggio teneva la sua Asta tosta in cui proponeva, periodicamente, il quadro “Il bevitore” di un immaginario maestro Teomondo Scrofalo.
Anni a chiedersi chi fosse questo sedicente artista, fino alla risposta, arrivata durante questo seconda quarantena nazionale a macchie di leopardo. Il desiderio di pensare ad altro, misto a quel non so che di Proust aleggiante su noi quarantenni, mi ha fatto ritornare alla mente quel ricordo di gioventù.
Avrei potuto chiedere ad internet che tutto conosce ma, non sapendo cosa esattamente, ho preferito andare alla vecchia, ovvero rivolgermi ad un amico perito nel proprio mestiere: Paolo, per passione e lavoro un acuto conoscitore di arte, artisti e prima periferia.
Il “Bevitore” era l’opera di Giuseppe de Curtis, vissuto tra metà Ottocento ed i primi del Novecento, artista autodidatta, decoratore di interni e professore onorario all’accademia di Napoli.
Per uno di quei casi del destino il “Bevitore” divenne famosissimo, virale diremmo oggi, riprodotto in varie copie e stampe.
A partire dagli anni Cinquanta/ Sessanta il vecchietto ammiccante con il bicchiere in mano divenne la bandiera di molte trattorie della penisola.
Il suo volto rassicurante, unito ai tavolini con la tovaglia a quadretti erano, o forse sono ancora, una garanzia, a prescindere, della bontà e della tipicità di quell’osteria, magari dalle poche pretese ma, che si immaginava, dai sapori di una volta.
E non importa che il pollo ai ferri, spacciato per ruspante, arrivasse da anonimi allevamenti intensivi e che il vinello, “come quello che faceva nonno”, fosse in realtà un dozzinale piscione: bastava la fisionomia del “Bevitore” per rassicurare gli avventori.